Tutti in Famiglia con Demna (per la prima volta) in Gucci
Non c’era bisogno di proclami per capire che il debutto di Demna da Gucci avrebbe monopolizzato Milano Fashion Week. La maison fiorentina, colpita da mesi turbolenti e da un calo a doppia cifra delle vendite, si è trovata costretta a rinegoziare la propria identità. Non con un passo incerto, ma con un colpo di scena radicale: un esordio che ha scelto il cinema come passerella, Piazza Affari come palcoscenico e l’immaginario familiare come chiave narrativa. Non una sfilata, bensì un rituale collettivo che ha messo in discussione le stesse regole dello show fashion tradizionale.
Il risultato è stato “The Tiger”, film diretto da Spike Jonze e Halina Reijn, con Demi Moore nei panni di Barbara Gucci. Un cortometraggio che ha reso la collezione Gucci Primavera/Estate 2026 non solo un guardaroba, ma un dispositivo narrativo. Il brand, invece di esibire i suoi codici, li ha montati come sequenze cinematografiche, li ha fatto recitare dentro dialoghi e allucinazioni, li ha consegnati a un pubblico che non era chiamato a contemplare, ma a interpretare.
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L’arrivo di Demna: il peso di un’eredità e il coraggio di ribaltarla
Il designer georgiano non ha mai nascosto la fascinazione per Gucci. Lo ha dichiarato lui stesso, ricordando le sfilate di Tom Ford viste da ragazzo in Georgia, quando l’idea di un brand poteva sembrare più potente di qualsiasi governo. La sua nomina a direttore creativo non è stata, dunque, un semplice trasferimento da Balenciaga alla maison fiorentina, ma l’assunzione di un peso simbolico: ripensare Gucci non come marchio, ma come movimento culturale.
I dati finanziari parlavano chiaro: -24% nel primo trimestre 2025, un cambio ai vertici con l’arrivo di Francesca Bellettini come CEO e la pressione del gruppo Kering, che negli ultimi due anni ha alternato quattro amministratori delegati. In questo scenario, il rischio di un passo falso era enorme. Demna ha scelto la strada meno ovvia: invece di lanciare un nuovo alfabeto estetico, ha tradotto la storia di Gucci in archetipi viventi, rielaborando i codici dei suoi predecessori senza cadere nel citazionismo sterile.
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La Famiglia come manifesto estetico e politico
Prima ancora del film, la campagna “Gucci: La Famiglia”, fotografata da Catherine Opie, aveva rivelato la strategia. Non un lookbook tradizionale, ma un atlante umano di personaggi: La Contessa, La Mecenate, La Sciura, La Primadonna, L’Incazzata, La Bomba, Miss Aperitivo. Figure che non erano semplici etichette, ma istruzioni d’uso dei capi, posture sociali, gesti tradotti in tessuto. In questo, Demna ha introdotto un’operazione concettuale: la moda come grammatica di ruoli, non come accumulo di pezzi.
L’uso del termine “famiglia” non è un vezzo italiano, ma un dispositivo di potere. Definisce chi appartiene, chi resta fuori, chi può pronunciare il “noi”. È una dichiarazione identitaria che rispecchia l’attuale tensione del lusso globale: non basta vendere prodotti, occorre creare tribù, comunità, rituali condivisi. Gucci, in questo senso, diventa un organismo narrativo, capace di trasformare i propri clienti in attori sociali di un dramma estetico.
Il film “The Tiger”: cinema come passerella, passerella come cinema
La première nella Borsa di Milano è stata un ribaltamento scenico. Piazza Affari, luogo simbolico della finanza, si è trasformata in sala cinematografica, con un velluto senape a incorniciare l’evento. Il corto di Jonze e Reijn ha raccontato una famiglia disfunzionale, un compleanno psichedelico, una villa hollywoodiana abitata da personaggi in bilico tra potere e rovina. Il tutto contaminato da una sostanza chiamata Conscious Bliss, che svela fragilità e desideri repressi.
Ogni personaggio incarnava un capo, ogni outfit era una battuta di sceneggiatura. Demi Moore-Barbara Gucci apriva con un cappottino rosso anni Sessanta, battezzato “Incazzata”. Edward Norton, Elliot Page, Keke Palmer, Kendall Jenner e Alia Shawkat moltiplicavano le identità della collezione, oscillando tra ironia e grottesco. Persino il monogramma GG diventava scenografia, saturato fino a occupare ogni superficie visiva. Non c’era sfilata: c’era un montaggio, un ritmo, una sequenza di immagini che ripensava l’idea stessa di moda.
Archetipi di stile: tra archivio e mutazione
Uno dei gesti più interessanti di Demna è stato usare l’archivio come materia viva, non come reliquia. Il Bamboo del 1947 veniva riproporzionato, l’Horsebit del 1953 ingrandito fino a diventare un segno architettonico, il Flora rivoltato su tonalità notturne. I simboli storici non erano citati, ma manipolati, spinti verso l’eccesso o ridotti a minimalismo assoluto. La tradizione, qui, non è venerazione ma traduzione.
La collezione oscillava tra il massimalismo dei cappotti oversize, delle piume e dell’oro, e la nudità dei body seamless, delle trasparenze chirurgiche, dei costumi da bagno convertiti in abiti da sera. Una tensione che ricordava l’era Tom Ford, ma depurata da nostalgia. La “Gucciness” si ridefiniva come sintassi di contrasti: volumi contro rigore, ironia contro classicismo, citazione contro invenzione.
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Gucci come specchio del lusso contemporaneo
Il debutto di Demna non può essere letto solo come episodio estetico, ma come mossa di strategia culturale. Gucci, che rappresenta oltre il 50% del fatturato di Kering, non poteva limitarsi a un cambio di silhouette. Serviva un gesto che ridesse centralità al brand, non come semplice produttore di beni di lusso, ma come laboratorio di linguaggi. La moda, oggi, compete con cinema, musica e arte per attenzione e rilevanza. Con “The Tiger”, Gucci ha dimostrato di poter occupare contemporaneamente più spazi: la sala cinematografica, il feed social, l’archivio storico, la cronaca economica.
Il pubblico presente – da Gwyneth Paltrow a Valeria Golino, da Serena Williams a Mariacarla Boscono – non era lì per vedere abiti, ma per assistere a una mutazione di sistema. Il red carpet non era un accessorio, ma parte integrante del rito, con modelle e modelli che interpretavano il ruolo di star hollywoodiane davanti a un tempio della finanza.
Demna tra Balenciaga e Gucci: due linguaggi, una stessa ossessione
Molti si chiedevano se Demna avrebbe “portato Balenciaga dentro Gucci”. In parte lo ha fatto: i volumi, le proporzioni estreme, il gusto per la distorsione erano riconoscibili. Ma l’operazione è stata più sottile. Da Balenciaga ha tratto la capacità di trasformare lo spazio scenico in narrazione – basti pensare all’ultima sfilata apocalittica del brand parigino – e l’ha applicata al contesto fiorentino. Gucci non diventa Balenciaga, ma assorbe la stessa ossessione per la mise en scène totale, dove il vestito non è più oggetto ma attore.
In questo, il film diventa un manifesto. Non si tratta di uno spot, né di un branded content, ma di un rituale cinematografico che ridefinisce il confine tra marketing e creazione artistica. Gucci, sotto Demna, non racconta più collezioni, ma mette in scena parabole sulla libertà, sul desiderio, sulla famiglia come metafora del sistema moda.
Non va dimenticato che questo debutto arriva in un momento di crisi. I numeri parlano di calo strutturale, la concorrenza di marchi come Louis Vuitton e Hermès appare sempre più aggressiva, e il consumatore globale chiede autenticità oltre al lusso. La scelta di Demna, e di Kering, è stata quella di rispondere con radicalità. Non inseguire le vendite immediate, ma ridefinire l’immaginario. Creare un dibattito, generare conversazioni, occupare lo spazio culturale prima ancora di quello commerciale.
La prima vera sfilata è attesa per febbraio 2026. Ma il cortometraggio ha già compiuto ciò che serviva: riportare Gucci al centro del discorso, restituendogli quell’aura di marchio imprevedibile, capace di rischiare e di sorprendere. In un sistema che spesso si appiattisce sulle formule sicure, Gucci sceglie la via più pericolosa: raccontare se stessa come famiglia disfunzionale, tribù instabile, comunità estetica.
Daniele Conforti
