Perché siamo così ossessionati dalle supermodel
C’è una frase che ricorre spesso tra gli addetti ai lavori, bisbigliata dietro le quinte di casting e redazioni come una preghiera pagana: “Tutti vogliono essere una modella.” Non una persona fotografata, non una celebrità, ma una supermodel.
Un concetto che trascende l’immagine stessa, che si nutre di qualcosa di più carnale e pericoloso: l’idea di incarnare un’epoca.
Negli anni ’90, quando Carrie Bradshaw inciampa letteralmente sulla passerella di Dolce & Gabbana in Sex and the City, non è solo una gag. È un manifesto. Carrie rappresenta noi: quella parte di pubblico che desidera entrare nel mondo rarefatto della moda, ma che teme la vertigine dell’essere guardata. “But I’m not a model,” dice. Eppure, il solo essere lì la rende parte del mito.
Da allora, la cultura pop non ha smesso di metabolizzare questa ossessione. Ogni generazione ha avuto le sue icone, le sue eroine di chiffon e luci stroboscopiche, ma nessun’altra parola ha resistito all’erosione del tempo quanto “supermodel”.
Perché la supermodel non è solo una donna bella. È un concetto, un’industria, una religione di superficie e profondità. È la persona che tutti guardano, e che — per una volta — sa di essere guardata.
Gli studiosi della moda definiscono la nascita ufficiale del termine tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, quando Naomi Campbell, Cindy Crawford, Linda Evangelista e Christy Turlington non erano solo volti, ma vettori di desiderio collettivo. “We don’t vogue, we are Vogue”, avrebbe potuto essere il loro motto.
Erano donne che si sceglievano da sole, che dichiaravano apertamente: “Non sono stata scoperta. Ho scelto.”
La supermodel nasce quando la modella smette di essere musa e diventa autrice della propria immagine.
L’epoca d’oro e la tirannia dell’immagine
Nel 1990, cinque donne cambiarono per sempre la storia dell’immagine. Naomi, Cindy, Christy, Linda e Tatjana apparvero insieme sulla copertina di British Vogue, fotografate da Peter Lindbergh. Quello scatto, e la sfilata Versace dell’anno successivo sulle note di Freedom! ’90 di George Michael, furono il Big Bang della cultura fashion contemporanea.
Era l’epoca in cui le supermodel non erano solo testimonial, ma ambasciatrici di uno stile di vita. Non vendevano vestiti: vendevano il sogno stesso di poterli indossare.
Linda Evangelista dichiarò: “Non ci alziamo dal letto per meno di 10.000 dollari al giorno.” Non era arroganza, era la presa di coscienza di un potere. Quelle donne controllavano il proprio valore, e il mondo le guardava con una devozione che oggi riserviamo solo alle celebrità digitali.
Lisa Fonssagrives, spesso considerata la prima supermodel della storia, già nel 1936 posava per Vogue con la grazia scolpita di chi sa di inaugurare un nuovo linguaggio visivo. Dopo di lei vennero Dovima, Suzy Parker, Twiggy, Beverly Johnson, Marisa Berenson e Pat Cleveland.
Erano gli anni in cui la bellezza era ancora una frontiera da esplorare, e ogni volto introduceva una nuova grammatica del fascino. Twiggy con i suoi occhi da cerbiatta e le ciglia grafiche riscrisse l’estetica dei ’60, Beverly Johnson divenne la prima donna nera sulla copertina di Vogue US nel 1974, e con lei cambiò la percezione del glamour.
Ma fu negli anni ’80 e ’90 che la supermodel divenne una forza geopolitica. Cindy Crawford incarnava l’America solare e atletica, Naomi Campbell la furia elegante dell’impero nero, Linda Evangelista la mutaforma del desiderio, Christy Turlington la grazia classica in versione Calvin Klein, Claudia Schiffer la Germania export della sensualità, Kate Moss l’anti-bellezza diventata mito.
Non erano intercambiabili, erano archetipi. E ognuna rappresentava una variazione del potere femminile in un’epoca che ancora faticava ad accettarlo.
L’immagine, negli anni delle supermodel, non era mai neutra.
Era un’arma di seduzione, ma anche di controllo. Ogni campagna di Gianni Versace, ogni passerella di Mugler o Dior, diventava un palcoscenico per ridefinire cosa fosse la donna moderna. Ed è in quella sovrapposizione di potere e fragilità che nacque il culto: la supermodel non era solo guardata, ma desiderata, imitata, contestata.
E soprattutto, non apparteneva più al fotografo. Apparteneva al mondo.
Il crepuscolo delle dee
Poi, improvvisamente, tutto cambiò.
L’avvento dei 2000, con la cultura dei reality e la fame di celebrità istantanea, spostò il potere dall’immagine alla personalità. Le copertine di Vogue e Harper’s Bazaar iniziarono a riempirsi di attrici, cantanti, persino influencer. Le modelle, per la prima volta, furono escluse dal loro stesso Olimpo.
Kate Moss chiuse simbolicamente un’era: la sua estetica “heroin chic” fu la risposta tossica a un decennio di perfezione sovrumana. Ma anche un punto di non ritorno. Dopo di lei arrivarono Gisele Bündchen, l’“ubermodel” brasiliana che riportò in passerella la fisicità solare contro la magrezza patologica, e poi Adriana Lima, Joan Smalls, Karlie Kloss, Doutzen Kroes, Liu Wen.
La generazione dei 2000 era globale, digitalizzata, mercificata.
Le supermodel non erano più creature mitologiche, ma brand aziendali con manager, campagne mirate, hashtag dedicati.
Con l’avvento di Instagram, la gerarchia della moda si capovolse: non erano più le riviste a creare le modelle, ma le modelle a creare il proprio pubblico.
Da questo terreno fertile nacquero le cosiddette “nepo babies” — Kendall Jenner, Gigi e Bella Hadid, Kaia Gerber — figlie d’arte e d’immagine, cresciute in un ecosistema di visibilità costante.
Molti le accusano di aver svuotato il significato di supermodel, di aver trasformato la parola in un algoritmo. Eppure, guardando la performance di Bella Hadid al Coperni show del 2023, quando il suo abito viene “spruzzato” direttamente sul corpo in tempo reale, si percepisce ancora quell’aura originaria: la fusione perfetta tra corpo, tecnologia e mito.
La nuova generazione ha ereditato il potere, ma ne ha cambiato la lingua.
Paloma Elsesser ha reso la diversità non un gesto politico ma estetico, Precious Lee ha riscritto i canoni della sensualità curvy, Vittoria Ceretti ha incarnato la bellezza italiana in un mondo ormai apolide, Imaan Hammam ha reso il melting pot culturale un simbolo di forza.
Non sono le supermodel di un tempo, ma sono le uniche capaci di farci credere ancora che il volto possa essere destino.
L’ossessione, del resto, non è mai per la persona, ma per ciò che rappresenta. E oggi, più che mai, abbiamo bisogno di immagini che resistano al rumore del feed.
Supermodel: la persistenza del mito
In un’epoca in cui chiunque può accumulare milioni di follower e trasformare un selfie in moneta sociale, la parola supermodel conserva una carica quasi sacrale. È un titolo che non si compra, si conquista. E proprio per questo, la sua rarità la rende preziosa.
Perché continuiamo a esserne ossessionati?
Forse perché le supermodel sono le ultime divinità riconosciute di una civiltà secolare, figure che uniscono desiderio e disciplina, fragilità e potere.
In un mondo che pretende autenticità ma idolatra la perfezione, loro sono l’ultima contraddizione possibile.
Naomi Campbell, oggi ambasciatrice ONU e ancora regina delle passerelle, incarna la sopravvivenza stessa del mito. Linda Evangelista, tornata a posare dopo anni di silenzio, mostra un volto segnato da interventi e vulnerabilità: la bellezza non come status, ma come coraggio.
Cindy Crawford e Christy Turlington, con le loro carriere imprenditoriali e filantropiche, hanno trasformato il concetto di “modella” in quello di “imprenditrice culturale”.
Intanto, l’industria tenta di ricodificare il linguaggio. La parola “model” oggi è liquida, ibrida, intersezionale. Ma la supermodel resiste come categoria mitologica, perché incarna la cosa più difficile da digitalizzare: la presenza.
Quando una supermodel entra in una stanza, il tempo rallenta. È un fenomeno fisico, quasi misurabile: l’aria cambia densità, le persone smettono di parlare.
Non è questione di bellezza, è magnetismo. È la consapevolezza di chi ha imparato a esistere nel pieno della propria immagine.
E forse è questo che, inconsciamente, desideriamo: non la perfezione, ma la padronanza.
La supermodel è il prodotto più sofisticato del capitalismo estetico e, al contempo, la sua più brillante sabotatrice. Vive della logica del consumo, ma la domina. È testimonial e dittatrice, musa e brand, schiava e dea.
Nel 2025, quando tutto si muove alla velocità dell’algoritmo, lei continua a esistere in un tempo rallentato, sospeso.
Ecco perché, quando Naomi chiude una sfilata di Balmain o Bella Hadid posa con lo sguardo neutro ma impenetrabile, ci troviamo ancora lì, catturati, immobili, a cercare in quel volto qualcosa che non possiamo scrollare via.
Il mistero delle supermodel è che ci ricordano ciò che abbiamo perso: il privilegio di essere guardati come se fosse un rito, non un consumo.
Non sono perfette, non lo sono mai state. Ma continuano a farci credere che la bellezza, per un istante, possa ancora essere una forma di verità.
Daniele Conforti
