Jonathan Anderson debutta da Dior: l’ennesimo New Look?
Pochi debutti nella moda contemporanea hanno acceso le aspettative quanto l’arrivo di Jonathan Anderson da Dior, in particolare per la linea femminile. L’uomo che ha reinventato Loewe, trasformandolo in un laboratorio di desideri e oggetti cult, affronta la prova più imponente: guidare il secondo brand più importante di LVMH e riscrivere il destino del prêt-à-porter e dell’haute couture femminile della Maison.
Il debutto maschile, avvenuto mesi prima, aveva già offerto una chiave di lettura: Anderson possiede un occhio radicale, capace di unire il concettuale al commerciale, l’avanguardia alla seduzione del consumo. Ma la vera vocazione storica di Dior non è mai stata l’uomo: è la donna, il suo corpo e la sua immagine. Ecco perché questa prima collezione Primavera Estate 2026 non è stata soltanto un evento di moda, ma una verifica culturale della capacità del designer nordirlandese di reggere il peso di un’eredità che da sola plasma decenni di estetica.
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La scenografia: cinema, memoria e potere
Anderson non ha scelto una passerella neutra. Ha chiesto al regista Luca Guadagnino di costruire una scenografia che fosse insieme monumento e set cinematografico: una piramide rovesciata che dominava i Giardini delle Tuileries, sopra la fontana più grande, come un prisma simbolico che catturava e moltiplicava immagini.
Lo show non è iniziato con gli abiti, ma con un video diretto da Adam Curtis, documentarista radicale, autore di Hypernormalisation. Un montaggio potente, in stile Zoo TV, che ha raccolto frammenti della storia Dior: Christian Dior severo nel suo atelier di Avenue Montaigne, Gianfranco Ferré in prova, Galliano in versione astronauta, fino agli archivi cinematografici con Marlene Dietrich vestita Dior. Il tutto intervallato da spezzoni di film e immagini di sfilate iconiche. Un applauso scrosciante ha sancito che il viaggio nella memoria era il preambolo perfetto per introdurre la nuova era.
La scelta di Curtis non è stata casuale: il suo cinema parla di manipolazioni, di narrazioni che collassano, di mondi costruiti artificialmente. Anderson ha usato questa estetica come chiave di lettura della moda stessa, terreno di illusioni e immagini, ma anche di potere. In quel cortocircuito tra politica, cultura pop e couture c’era la dichiarazione d’intenti: Dior non è solo un brand, è un’ideologia estetica.
La Bar Jacket e le sue metamorfosi
Il cuore del debutto è stato inevitabilmente la Bar Jacket, emblema del New Look del 1947. Anderson l’ha trasformata in decine di versioni: stretta fino a sembrare un corsetto sportivo, ondulata con volant posteriori che la facevano sbalzare dal corpo, allungata in forma di cappotto, ibridata con lo smoking o resa fragile come seta plissettata. Non c’era citazione letterale, ma metamorfosi continua, un esercizio di anatomia del mito.
Accanto a essa, comparivano riferimenti a modelli storici: l’abito Juno, il Tulip del 1953, l’Eugénie, i tagli “a zig-zag” del 1948. Ma non erano revival: Anderson ha usato queste eredità come codici genetici da ricombinare, piuttosto che come modelli da replicare. Le silhouette erano ricche di citazioni, ma mai ridotte a citazioni.
Il risultato? Una collezione che parlava di modernità, con un tocco quasi surrealista: gonne-fiocco, top che sembravano tende teatrali, pieghe che si avvolgevano come sculture. Gli abiti-sacco decorati di ortensie giganti confermavano la mano di Anderson, mentre le tutine aderenti mischiavano sportswear e tailoring, con l’illusione di frac futuristici.
L’arte del contrasto di Dior: couture e quotidiano
La collezione non era solo concettuale. Anderson, abile stratega del mercato, ha inserito in passerella look commerciali: Bar Jacket con minigonne di denim, completi in cotone a quadri o floreali, combo di polo e pantaloni oversize. Una donna daywear convivente con la diva da red carpet.
Questo contrasto tra couture e quotidiano, tra scultura tessile e abito da negozio, non appariva come incoerenza ma come strategia di seduzione. Dior non vive di soli archivi e musei: vive di vendite, di borse iconiche, di star che vestono il brand nei festival e nelle prime cinematografiche. Anderson lo sa bene: la sua “Puzzle Bag” per Loewe è stata la borsa più venduta di Harrods. Non è un caso che già in questa sfilata abbia introdotto la nuova borsa Cigale, triangolare, con fiocco, destinata a diventare la nuova it-bag Dior dopo la Lady D e la Saddle.
Palette e dettagli: femminilità astratta
La tavolozza era tenue, delicata, ma mai pallida. Rosa cipria, grigi lattiginosi, blu polverosi, avorio, con esplosioni di tartan scozzese e tocchi floreali. Gli accessori trasformavano il rigore in gioco: cappelli Bar rovesciati, tricorni dalle ali d’aereo, cappelli da suora reinventati. Scarpe con orecchie da coniglio o fiocchetti bon-ton, tacchi educandi che celavano ironia.
La nuova estetica Dior femminile è apparsa fragile e tweed, bon-ton e sognante, ma con punte di teatralità gallianesca. Anderson ha scelto di stabilire un tono, non ancora una direzione definitiva. Ha dato personalità ai dettagli, più che al macro-racconto.
In prima fila, intanto, il pubblico leggeva la collezione in chiave commerciale: le celebrity vestivano il lato “vendibile” della proposta, quello che nei prossimi mesi popolerà i negozi. Da Jennifer Lawrence ad Anya Taylor-Joy, da Jenna Ortega a Charlize Theron, ognuna incarnava un volto possibile della donna Dior. Il debutto di Matilde Lucidi, figlia di Bianca Balti, ha aggiunto un tocco di passaggio generazionale, come a dire che Dior resta un rito di iniziazione.
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La collezione ha rivelato una tensione interessante: da un lato la volontà di omaggiare la storia Dior senza ridurla a museo, dall’altro la necessità di parlare a un pubblico contemporaneo, che consuma moda come linguaggio pop. Anderson non ha nascosto la sfida: “Non sono un couturier”, ha ammesso con sincerità quasi disarmante durante l’anteprima. Ma ha aggiunto che Dior è un immaginario enorme, un film continuo che vive di proiezioni e fantasie.
Il suo compito non è replicare Christian Dior, ma ridefinire cosa significa essere Dior oggi. La tensione tra couture aristocratica e daywear disinvolto, tra memoria e avanguardia, tra scultura e denim, non è stata un difetto: è stata la sua dichiarazione d’intenti. Dior, nella visione di Anderson, non è un blocco monolitico, ma una contraddizione vivente.
Dior dopo Maria Grazia Chiuri: una transizione delicata
Mai come in questa occasione, la Paris Fashion Week ha avuto occhi concentrati su una sola passerella. Il front row era un atlante di potere: Bernard Arnault a fianco di Brigitte Macron, Johnny Depp che catalizzava flash, una sequenza di stilisti presenti come se fosse una lezione universitaria: Rick Owens, Glenn Martens, Stefano Pilati, Alessandro Michele, Chitose Abe, Nicolas Di Felice, Simone Bellotti. Tutti lì per osservare l’esperimento Anderson.
L’evento ha radunato anche la costellazione pop: Jimin e Jisoo, Rosalía, Jenna Ortega, Kit Connor, Jonathan Bailey. Una mappa della contemporaneità che conferma come Dior non sia solo moda, ma cultura popolare globale.
Il passaggio da Maria Grazia Chiuri a Jonathan Anderson segna un cambio radicale di registro. L’era Chiuri ha consolidato Dior con un’estetica femminista, attenta alle arti e alle collaborazioni concettuali, con volumi commerciali altissimi. Anderson eredita un brand solido, ma deve costruire una nuova identità.
Il suo debutto femminile non ha tentato di rivoluzionare, ma di innestare il proprio linguaggio dentro l’eredità Dior. Ha introdotto umorismo, surrealismo, giochi plastici, fiori giganteschi e silhouette tortili. Ma ha scelto la misura, non lo scandalo. Ha preferito il dialogo al conflitto.
È un work in progress, certo. Ma è proprio qui che sta la sua forza: non dare risposte definitive, ma aprire domande. Cosa diventerà Dior con Anderson? Una couture intellettuale? Un prêt-à-porter ironico? Una casa pop globale? Forse tutto insieme.
Daniele Conforti
