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Pharrell x Louis Vuitton tra Jaipur, Parigi e il dandyismo globale

Certe sfilate sono rumori che restano nelle orecchie anche dopo giorni, come quando si esce da un concerto e il timpano vibra ancora sotto pelle. Così è stato per la Louis Vuitton Men’s Spring 2026 Collection firmata Pharrell Williams, presentata nella pancia nevralgica della modernità parigina, il Centre Pompidou. Un evento che ha smesso di essere una semplice presentazione moda e si è trasformato in un atto scenico, una liturgia popolare sospesa tra storytelling post-coloniale, sincretismo culturale e sfrontato entertainment di lusso.

Il cuore pulsante di questa collezione? L’India. Non quella romantica e kitsch da cartolina anni ‘70. Non la versione patinata e anestetizzata dai viaggiatori Instagram. Ma un’India traslata, frammentata, reinterpretata attraverso il filtro caleidoscopico dell’occhio estetico di Pharrell, capace di atomizzare le suggestioni di Delhi, Mumbai e Jaipur in un racconto tessile che è insieme filosofia, sociologia e design narrativo.

Bijoy Jain e il serpente che non morde: un set che gioca

Il primo indizio lo trovi nel suolo stesso della passerella. Un gigantesco “Snakes and Ladders”, il gioco dell’oca originario dell’India antica, reinterpretato dall’architetto Bijoy Jain (Studio Mumbai), trasforma lo spazio in una scacchiera simbolica sul karma: salite e cadute, evoluzione e caduta, fortuna e disillusione. Il genius loci si manifesta qui: non come cliché, ma come struttura mentale, come grammatica visiva che informa ogni scelta del guardaroba.

Pharrell non si limita a citare l’India: la ingloba, la distilla. La palette è una cartografia spirituale: il caffè bruciato dei mercati di Delhi, il viola ascetico delle tuniche sadhu, il giallo curcuma, il terracotta riarso, il chartreuse polveroso dei monsoni. Tutti colori che non si vedono solo, si sentono addosso. Ogni capo è un paragrafo di un libro apocrifo di viaggio, scritto non con l’inchiostro ma con tessuti, fili metallici e decostruzioni.

 

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La reincarnazione del dandy: tailleur, hiking e couture funzionale

Chi si aspettava il solito glamour-fetish da passerella si è trovato davanti un’opera di moda rituale. Pharrell rimescola codici con l’abilità di un alchimista digitale: giacche morbide da clima monsonico convivono con shorts da scalata himalayana e giacche a vento technicolor che sembrano uscite da un campo base di glamping di lusso. C’è un equilibrio inquietante e seduttivo tra estetica outdoor e couture urbana, tra la polvere delle strade indiane e l’acciaio riflettente del centro Pompidou.

Le silhouette si sciolgono. I volumi respirano. Pharrell ha abbandonato il rigore sartoriale per una fluidità colta, ispirata alle stratificazioni culturali indiane, dove il layering è tanto un fatto estetico quanto termico e simbolico. I pantaloni sono languidi, le stoffe raccontano genealogie tessili millenarie, e i dettagli—come gli orli in metallo o le decorazioni in filo d’oro—sono precisi come versi di un haiku punjabi.

Il ritorno dello Speedy: nuova vita, nuova fede

Ma se c’è un protagonista assoluto, questo è lo Speedy P9. La reinvenzione firmata Pharrell del celebre baule morbido di Vuitton è ormai più di un accessorio: è un’icona mitologica, un’armatura pop che muta ad ogni stagione. In questa collezione esplode in versioni ricamate, a righe, con monogrammi dorati, oppure animali fantastici tratti dall’universo Andersoniano.

Il riferimento è preciso: The Darjeeling Limited. Quel film di Wes Anderson del 2007, oggi criticato per la sua estetizzazione ingessata dell’India coloniale, è stato ripreso non come modello da imitare, ma come reperto da smontare e hackerare. Pharrell riprende le valigie disegnate da Marc Jacobs e ci costruisce sopra una nuova narrazione, in cui l’omaggio si fonde con il superamento.

La spiritualità secondo Pharrell: tra gospel, sitar e realtà aumentata

La colonna sonora non è mai solo musica, è parte integrante della regia emozionale. A scriverla, oltre allo stesso Pharrell, ci sono The-Dream, Tyler, the Creator, Doechii e il compositore premio Oscar A.R. Rahman. Il risultato è un’orchestra sincretica che unisce gospel afroamericano (Voices of Fire), lirismo francese (Orchestre du Pont Neuf), e sitar in loop psichedelico. Non è solo un sottofondo: è un mantra acustico che trasforma la sfilata in un’esperienza multisensoriale, quasi sciamanica.

E poi ci sono loro, i modelli. O meglio, i pellegrini sartoriali. Camminano lenti, ma non per posa: è il passo di chi porta un peso simbolico. Crate LV rotolati da figuranti in camicia Équipe, occhiali con dettagli da valigeria d’epoca, cappotti pixelati, mantelli-poncho decorati come reliquiari elettronici. È moda che non cerca lo stupore ma l’affermazione ontologica: “sono qui, ho viaggiato, ho visto, ho portato con me”.

L’equilibrio instabile tra reverenza e appropriazione

C’è però una tensione, volutamente non risolta. Pharrell è consapevole dell’ambiguità intrinseca del citazionismo post-globale. Non sfugge al rischio dell’appropriazione, ma lo affronta frontalmente: “La narrazione fornisce contesto, e il contesto mostra le intenzioni”, ha dichiarato a WWD. La differenza tra omaggio e furto culturale non è solo estetica, è etica e narrativa. E Pharrell, nel bene e nel male, narra. Scompone e riassembla. Dialoga con le comunità artigianali indiane. Studia. E si prende la responsabilità della propria estetica, anche quando scotta.

Con questa collezione, Louis Vuitton si fa atlante. Un atlante dove le coordinate non sono geografiche, ma emozionali, spirituali, storiche. Parigi non è più il centro: è un crocevia. India non è l’“altro” esotico: è parte integrante della mappa culturale globale. Pharrell non disegna solo abiti, ma geografie del desiderio. I suoi vestiti sono mappe da indossare, bussole per viaggiare senza spostarsi, o perdersi consapevolmente.

Certo, c’è glamour. Ci sono Jay-Z, Beyoncé, J-Hope, Jackson Wang, Spike Lee, Wembanyama. Ma il vero protagonista non è chi siede in prima fila: è la complessità, finalmente rappresentata senza infingimenti.

Daniele Conforti