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Louis Vuitton conquista la ristorazione, tra gelati e mise en place stellate

A Forte dei Marmi si scende dalla bici, si tolgono gli occhiali da sole con aria distratta e si ordina un cono Vivienne. Il sapore è latte portoghese e mandarino. Il prezzo è discreto ma deciso. L’identità è firmata Louis Vuitton. Dimenticate l’aperitivo al Twiga, dimenticate i cestini da picnic delle signore di Milano 2. Oggi il nuovo status symbol d’estate è servito su cialda decorata con fiori Monogram. E non è una boutade stagionale: è l’ultimo tassello di una strategia globale che Louis Vuitton sta mettendo in campo da mesi, mescolando moda, ospitalità e cultura gastronomica in un mélange che ha il sapore del rischio. O dell’azzardo.

Sì, perché il gelato griffato non è più solo un vezzo. È un manifesto. Ed è proprio questo che impone la domanda: cosa sta diventando Louis Vuitton? E soprattutto: a chi si rivolge oggi un brand che storicamente ha fatto dell’esclusività il proprio perimetro?

Da Gstaad a Galliano: il food secondo Louis Vuitton

Non è più tempo di trunk e bauli. O meglio: non solo. Louis Vuitton è in piena mutazione. Dopo l’apertura del ristorante a Osaka progettato da Jun Aoki e di quello a Bangkok con lo chef Gaggan Anand, è la volta dell’Italia. Milano ospita Da Vittorio Café Louis Vuitton e DaV by Da Vittorio, due proposte ristorative — bistrot e fine dining — affidate ai fratelli Cerea e ospitate in un Palazzo Taverna ristrutturato dall’architetto delle star Peter Marino. Il design è da coffee table book, la mise en place è Art de la Table con piatti in porcellana di Limoges decorati con il Monogram. E tra un pacchero e una gaufrette di granchio reale, Vuitton scommette su un gesto quotidiano: sedersi a tavola. Ma con stile.

Intanto, a Forte dei Marmi, l’epicentro del lusso vacanziero all’italiana, sbarca la prima gelateria Vuitton. Pop-up, certo, ma perfettamente integrata nel tessuto urbano. Il verde del chiosco richiama quello delle cabine balneari. Le cialde diventano petali. I tovagliolini sono griffati. La mascotte Vivienne accoglie i clienti come una Minnie da Riviera. I gusti? Dieci classici più due esclusivi, nati dalla collaborazione con Galliano, storica gelateria versiliese fondata nel 1923. Il risultato è una fusione calibratissima tra savoir-faire francese e artigianato locale. Il punto, però, non è quanto siano buoni quei gelati (e lo sono). Il punto è perché Vuitton sta scegliendo il cibo come campo da gioco.

Sapore di branding: la nuova ossessione dell’exclusivité democratica

Chiariamo subito una cosa. Louis Vuitton non sta “diversificando”. Sta riposizionando. Il cibo è il nuovo linguaggio del lusso. Un linguaggio accessibile, universale, replicabile. Un cono gelato può costare 12 euro. Un caffè al Vuitton Lounge può sfiorare i 9. È la perfetta porta d’ingresso per chi vuole assaporare l’universo del brand senza dover sborsare migliaia di euro. Ed è proprio questo che desta più perplessità: la sovrapposizione tra aspirazione e accessibilità.

Il consumatore storico di Vuitton, quello che ordina valigie su misura o fa visita allo showroom parigino per visionare i nuovi modelli di Capucines, non vuole trovarsi in coda con l’influencer da provincia che fa stories davanti al chiosco di Forte. Eppure, è proprio su questo terreno che Vuitton ha deciso di giocare: rendere il suo immaginario esperienziale, quotidiano, addirittura “mangiabile”. Un lusso edibile, travestito da rituale pop.

La scelta è chiara. LVMH non punta solo alla quota di portafoglio. Punta alla quota di tempo. Vuole occupare ogni momento della giornata: dal caffè mattutino al dessert serale. E lo fa colonizzando i gesti più semplici con l’aura del brand. Non è moda. È lifestyle integrato. Una forma di soft power identitario.

Il prezzo dell’universo lifestyle? Una possibile frattura nel pubblico

Ma attenzione: l’equilibrio è fragile. Più si abbassa la soglia di accesso al brand, più si rischia di smarrire l’alone magico che ha sempre contraddistinto Louis Vuitton. L’eccessiva estensione rischia di trasformare l’esclusività in ubiquità. E ubiquità, nel mondo del lusso, è quasi sempre sinonimo di banalizzazione.

Un gelato da Vuitton può essere divertente, ironico, perfettamente coerente con l’estetica contemporanea dell’intrattenimento retail. Ma può anche essere percepito come un cortocircuito da chi ha sempre considerato il marchio una roccaforte di discrezione. Il rischio più grande? Che il consumatore elitario decida di migrare verso marchi meno esposti, più silenziosi, meno desiderosi di trasformare ogni angolo del mondo in una gift shop.

La verità è che oggi il mercato del lusso si muove su due binari paralleli e spesso incompatibili: da una parte il desiderio di inclusività esperienziale (una forma soft di democratizzazione), dall’altra il bisogno quasi primitivo di esclusività assoluta. Vuitton sta cercando di cavalcare entrambi. Ma quanto potrà durare questo doppio gioco?

Un gelato chiamato Gaston: quando il marketing si fa storytelling

Eppure, c’è qualcosa di irresistibile in questa nuova era Vuitton. Perché non si tratta di food per il food. È design emozionale. È racconto sensoriale. Prendiamo il gusto Gaston, ispirato al nipote del fondatore, personaggio centrale nello sviluppo intellettuale e visivo della Maison. Non è solo uno zuccotto rivisitato. È una narrazione. È un link tra presente e passato, tra zucchero e memoria.

Lo stesso vale per il ristorante milanese, dove le stoviglie diventano arte e i paccheri un manifesto. O per il toast con tre pomodori servito al café di Palazzo Taverna: una ricetta solo in apparenza semplice, ma pensata per restituire un concetto estetico. In ogni piatto, Vuitton prova a raccontare un pezzo della sua mitologia.

Il gesto del mangiare si trasforma così in una performance di branding. Il retail fisico, minacciato dall’e-commerce, si salva mutando in experience. E l’esperienza deve essere completa, multisensoriale, immersiva. Se prima compravi una borsa, oggi diventi parte di un ecosistema narrativo. Il lusso non ti veste più. Ti accoglie. Ti intrattiene. Ti seduce con altri linguaggi.

Moda e gastronomia: un matrimonio (di convenienza) destinato a durare?

Louis Vuitton non è il primo a flirtare con il cibo. Gucci ha lanciato Osteria con Massimo Bottura. Armani ha da anni ristoranti e bar in tutto il mondo. Dolce & Gabbana ha sperimentato linee di pasta e caffè. Ma Vuitton lo fa con una intensità diversa. Non si accontenta di “essere anche” gastronomia. Vuole diventarlo. Vuole colonizzare il tempo libero, lo spazio urbano, l’abitudine. E lo fa senza rinunciare al proprio codice estetico.

Il risultato? Una contaminazione controllata, ma pericolosamente vicina alla saturazione. Perché se tutto è Louis Vuitton — il caffè, il gelato, il risotto, la tovaglietta — allora niente è più Louis Vuitton.

Eppure, il fascino resta. Il pop-up di Forte dei Marmi, pur nella sua dichiarata leggerezza, riesce dove molti esperimenti simili falliscono: rende l’effimero desiderabile. La passeggiata in Versilia diventa un pretesto per entrare in un immaginario. Il cono gelato è un passe-partout per un universo fatto di sogni e dettagli. È effimero, sì. Ma perfettamente Instagrammabile. E oggi, questo, può valere quanto una campagna da milioni.

Daniele Conforti