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Jonathan Anderson riscrive il lessico di Dior

Jonathan Anderson non ha bisogno di introduzioni. Ha bisogno di spazio. Di margine creativo, di aria tra le cuciture. E Dior gliel’ha concesso. Il suo debutto per la collezione Primavera/Estate 2026 non è stato solo una sfilata, ma un’operazione semantica sul concetto stesso di moda, di archivi, di corpo e immaginazione. Non c’è stata una rivoluzione visiva, c’è stata una mutazione profonda, lessicale, quasi linguistica.

Chi si aspettava effetti speciali è rimasto disorientato. Chi ha colto le sfumature — le cravatte morbide, i ricami rococò, le borse trattate come reliquie contemporanee — ha assistito al primo atto di un nuovo vocabolario. In questo vocabolario, gli accessori non sono complemento: sono il nucleo stesso del discorso. Anderson riscrive Dior non partendo dai cappotti o dai pantaloni, ma da ciò che si porta in mano, al collo, sul petto, intorno alla vita.

La Book Tote non è più una borsa

La Book Tote non è nuova. Ma quella che si è vista in passerella il 27 giugno è un’altra cosa. Svuotata dalla retorica del souvenir deluxe, Anderson l’ha svincolata dal cliché di borsa da vacanza e l’ha riplasmata in oggetto narrativo, vettore concettuale. Le superfici diventano copertine letterarie: In Cold Blood, Bonjour Tristesse, Les Liaisons Dangereuses, Dracula. Ogni borsa è un codice. Un messaggio a chi guarda. Un posizionamento culturale.

La tela, invece di essere stampata o ricamata a pattern, si comporta come una pagina tipografica. Le sfumature pastello — giallo sfumato, rosa cipriato, écru impolverato — richiamano le sovracopertine ingiallite di una biblioteca parigina del secondo Novecento. La forma non cambia, ma l’aura sì: da oggetto identitario si trasforma in manifesto portatile. L’accessorio non rappresenta più uno status, esprime un archivio interiore.

 

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Dior: il cannage non è decorazione, ma struttura

Altro tassello del linguaggio Anderson: il cannage. Motivo storico, geometria ripetuta, DNA visivo della Maison. Ma qui smette di essere pattern per diventare architettura espansa. In un maxi carryall in suede verde salvia, il motivo si rilassa, si destruttura, si trasforma quasi in una mappa astratta. Le cuciture diventano traiettorie, la pelle si piega come carta giapponese, i volumi non sono più contenitori ma organismi da indossare.

Anderson non aggiorna. Anderson ripensa. Ripensa l’uso, il significato, il ruolo dell’accessorio nella costruzione dell’identità contemporanea. E lo fa con chirurgica dolcezza: nessuna rottura violenta, ma uno slittamento graduale, uno spostamento del baricentro dal “cosa porti” a “perché lo porti”.

La cravatta come inizio di tutto

Chi conosce Anderson sa che nulla è messo lì per caso. La cravatta — ricorrente in tutta la collezione — è più che un vezzo: è un filo rosso che collega il passato al presente. Su Instagram, Anderson aveva pubblicato una celebre foto di Jean-Michel Basquiat scattata da Andy Warhol: il pittore indossa una cravatta a righe, sottile, elegante, impuntata. In passerella, quella cravatta riappare, moltiplicata, ibridata, trasformata in segno grafico. È codice, è citazione, è proiezione.

Quello che colpisce, però, è che la cravatta — nella collezione — non è inserita con ironia o nostalgia. È trattata con rigore da elemento grammaticale. Come se tutto fosse partito da lì: una silhouette verticale, una diagonale obliqua, un nodo. La cravatta è segno d’apertura, incipit dell’outfit, simbolo del legame tra corpo e linguaggio.

Charms e guanti da Dior

Altro punto forte del sistema accessorio Dior secondo Anderson: i charms. Ma non quelli leziosi, ridondanti, infantilizzanti. I nuovi charms sembrano reperti archeologici di un’estetica dimenticata. C’è la farfalla Diorette, rielaborata in chiave Rococò surreale, ci sono piccoli oggetti-ricordo, come se un dandy del XVIII secolo avesse svuotato le tasche su un tavolo di marmo futurista.

Questi dettagli, minuscoli ma potentissimi, compaiono come interpunzioni visive, come se ogni look fosse un discorso e i charms ne scandissero il ritmo: una virgola sul polso, un punto e virgola sul bavero, un accento acuto appeso a una cintura.

Un altro accessorio a cui Anderson restituisce peso è il guanto. In pelle lucida, in suede traforato, in cotone doppiato. Indossati a una mano sola o infilati parzialmente, i guanti diventano segni gestuali, prolungamenti del discorso corporeo. Non sono più barriera ma direzione, modo per articolare il movimento e trasformarlo in coreografia.

Le borse Dior come geografie dell’intimità

La collezione di borse, nella visione Anderson, si muove come una cartografia emotiva. Ci sono clutch morbide come cuscini ermetici. Ci sono tracolle destrutturate che sembrano nate da una scultura di Hans Arp. Ci sono borse in pelle ruvida, non rifinita, quasi materiche, che riportano in auge un’estetica neo-grezza ma intellettuale.

E poi c’è il pezzo inatteso: una borsa oversize indossata da A$AP Rocky al front row, anticipata a sorpresa pochi minuti prima dello show. Linee nette, chiusura invisibile, una superficie monocroma che sembra una tela pronta a essere scritta. Il rapper non ha parlato, ma l’ha mostrata.

Daniele Conforti