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Perché le modelle magre sono tornate a dominare le passerelle?

L’ossessione per la magrezza è tornata in passerella. Ma siamo sicuri che se ne fosse mai andata?

C’è qualcosa di stonato, di sospettosamente regolare, nell’omologazione dei corpi che hanno sfilato durante le ultime Fashion Week. Come se qualcuno avesse silenziosamente premuto rewind, riportando la moda a un’estetica da pre-body positivity, pre-Lizzo, pre-tutto. Come se le rivoluzioni dell’inclusività si fossero sgonfiate come trend qualsiasi. La realtà è questa: le modelle magre sono tornate, o forse non se ne sono mai andate del tutto. Ma oggi c’è un contesto culturale che rende questa regressione ancora più disturbante: l’ascesa dell’Ozempic come feticcio pop, la medicalizzazione della forma fisica e il ritorno di un’estetica retriva che affonda le mani negli anni Novanta più tossici.

Ozempic vs LVMH: chi detta legge nella cultura visiva?

La domanda è meno provocatoria di quanto sembri. Il sorpasso di Novo Nordisk, produttore dell’Ozempic, su LVMH per valore di mercato in Europa non è solo un dato economico, ma un’indicazione chiara: oggi, a influenzare il nostro immaginario, non sono più solo le maison ma anche le biotecnologie. Il corpo è tornato a essere un progetto ingegneristico, modificabile e ottimizzabile attraverso farmaci, diete-lampo e chirurgia invisibile. In questo scenario, la taglia zero non è più solo un simbolo estetico, ma il risultato di una filiera industriale. Vogue Business ha definito tutto questo «la ritirata della body positivity».

Secondo un’indagine condotta da Vogue Business sulla stagione SS25, il 94,9% delle modelle in passerella indossava una taglia 0-4. Emma Davidson, fashion director di Dazed, ha dichiarato senza mezzi termini che «questa è stata la stagione meno inclusiva degli ultimi tempi». Il problema non è solo estetico, ma sistemico: la moda ha deciso che non c’è più spazio per corpi che non siano funzionali alla silhouette, all’abito, alla foto. L’abito, oggi, viene prima del corpo.

Un’illusione democratica: il corpo come accessorio narrativo

Anche i brand che sembrano «giocare» col corpo, in realtà lo piegano a una logica estetica rigida. Le silhouette distorte di Duran Lantink, i reggiseni a punta di Miu Miu, i vestiti-scultura di Alaïa: sono tutti modi per parlare del corpo, ma raramente per ascoltarlo. È come se, nell’epoca in cui la moda sembra volersi esprimere più che mai, il corpo fosse solo un pretesto narrativo, una scultura da modellare, non da valorizzare.

 

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La nudità, o meglio l’illusione della nudità, domina le passerelle. Le modelle di The Row sfilano scalze, avvolte da calze nere. Da Diesel, tornano i famigerati bumster jeans, inventati da Alexander McQueen negli anni ’90 per allungare il torso femminile e «rendere il sedere un nuovo décolleté». Ma l’intento, che in McQueen era un atto di sovversione, oggi sembra smarrito. Quel tipo di design esiste ormai solo per accentuare un’idea conservatrice di bellezza, non per metterla in crisi.

Il corpo politico: l’illusione della neutralità

La moda, come sempre, fa politica senza ammetterlo. Nella stagione FW25, a dominare sono silhouette avvolgenti, gonne longuette, completi di pelle – da Hermès a Saint Laurent – che evocano un ideale di donna forte ma contenuta, assertiva ma discreta. Il corpo femminile è tornato a essere un contenitore, spesso fetishizzato, raramente liberato. I riferimenti alle trad wife culture, la nostalgia per una femminilità più «composta», si inseriscono in un panorama culturale globale dove l’estetica è sempre più usata per normare il comportamento.

L’ingresso delle modelle curvy, trans, non binarie sembrava solo due anni fa un fatto compiuto, un cambiamento irreversibile. Invece oggi quella stessa inclusività sembra essere diventata un ostacolo. Costosa, divisiva, difficile da gestire. Meglio tornare a un modello unico: più semplice da vestire, più facile da fotografare, più comodo da vendere. La moda non vuole più pensare, vuole solo performare.

Miuccia, Volkova e il doppio fondo del reggiseno a punta

Il reggiseno appuntito di Miu Miu è stato, in apparenza, un omaggio ironico agli anni Cinquanta. Ma la scelta di accompagnarlo a un cast che includeva modelle trans rende il messaggio più ambiguo e potente allo stesso tempo. Il corpo diventa linguaggio, e quel linguaggio può essere letto in molteplici modi. Miuccia Prada ha dichiarato: «Tutte le ragazze volevano le versioni più appuntite. Erano entusiaste». Ecco che, allora, un capo che sembrava retrò si trasforma in manifesto queer.

La scomparsa delle taglie morbide dalle passerelle non è solo una questione di casting, ma di ideologia. È un ritorno al controllo, all’uniformità, alla semplificazione narrativa. Il corpo, che dovrebbe essere il protagonista, viene ridotto a manichino, a supporto. E in questa riduzione, la moda perde anche parte della sua forza sovversiva. Perché un vestito può essere straordinario, ma se lo indossa sempre lo stesso tipo di corpo, il messaggio è sempre lo stesso: l’ideale resta uno solo. Tutto il resto è scarto.

Daniele Conforti