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Met Gala 2025: il meglio e il peggio sul red carpet

New York, 5 maggio 2025. Il cielo grigio sopra il Metropolitan Museum of Art non ha scoraggiato né fotografi né ospiti. Il Met Gala, evento di raccolta fondi e insieme atto rituale dell’élite globale della moda, apre la stagione del Costume Institute con un tema carico di senso e storia: “Superfine: Tailoring Black Style”. Per una sera, la moda ha smesso di giocare a mascherarsi e ha cominciato a raccontare. A prendersi sul serio. Non a caso, il dress code recitava “Tailored for You”: un invito a cucire su sé stessi un racconto identitario. Non tutti ci sono riusciti.

Il cuore dell’evento è l’esibizione, curata da Andrew Bolton e Monica L. Miller, quest’ultima già autrice di Slaves to Fashion: Black Dandyism and the Styling of Black Diasporic Identity. La mostra indaga il modo in cui l’uomo nero ha impiegato lo stile sartoriale come forma di autodeterminazione, sfida e resistenza. La moda non come ornamento, ma come linguaggio politico, tattica di sopravvivenza, affermazione di umanità. È in questa tensione che il Met Gala 2025 prende forma, con una narrazione intensa, a tratti sobria, a tratti carica di simboli, ma quasi mai gratuita.

 

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Red carpet o marcia silenziosa?

Chi si aspettava una notte di eccessi visionari, è rimasto spiazzato. I look visti salire i gradini del Met hanno rispettato con inusuale rigore la traccia proposta: abiti maschili (indossati da tutti i generi), tailoring impeccabile, citazioni ai black dandies di ogni epoca. Ma è stata una sobrietà scelta, e forse per questo ancora più potente. La meraviglia stavolta non ha urlato: ha sussurrato.

Pharrell Williams, co-chair dell’edizione e direttore creativo di Louis Vuitton Uomo, ha incarnato alla perfezione il tema: giacca doppiopetto ricoperta di 15.000 microperle cucite a mano, cravatta stretta e pantaloni flare. Il look, frutto di oltre 400 ore di lavorazione interna alla maison, è il manifesto visivo dell’approccio Williams: eleganza radicale come atto di rivendicazione. Lui stesso ha dichiarato a Vogue: “Voglio che questa sia la notte più epica, un riflesso della resilienza nera in un mondo ancora colonizzato”.

Al suo fianco, la moglie Helen Lasichanh in Louis Vuitton: outfit metropolitano, loghi evidenti, pelliccia-bauletto. Raffinata? No. Coerente? Nemmeno. Ma chi cerca coerenza, in fondo, non guarda al red carpet.

 

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Dandy come dichiarazione: Colman Domingo, Lewis Hamilton e gli altri

Colman Domingo ha fatto centro. Senza rumore, senza forzature. Il look firmato Maison Valentino by Alessandro Michele è il più sofisticato della serata. Giacca doppiopetto in lana a quadri burro e neri, pantaloni a gamba larga, mantello cobalto, sciarpa a pois, camicia in seta, cravatta floreale, piume, ricami, paillettes: ogni dettaglio è una citazione. Ma anche un manifesto. È il dandismo che diventa teatralità senza trasformarsi in parodia.

Lewis Hamilton, in bianco scorcio firmato Wales Bonner, abbina una giacca corta e una sciarpa-frangia: moderno e rigoroso, ha il merito di comprendere il tema, ma senza banalizzarlo.

Più estetica che sostanza per A$AP Rocky, che interpreta il black dandy in chiave Awge x Bvlgari: l’intento c’è, l’effetto meno. Tra i co-chair, è quello che si è preso meno rischi.

Vera Wang si reinventa (a 75 anni)

C’è chi ha preferito il silenzio parlante dell’identità. E chi ha scelto il cortocircuito. Vera Wang non è nuova a provocazioni sottili, ma stavolta ha sorpreso davvero: baby bangs, occhiali scuri da diva alienata, e un abito in cupro avorio con piume grigie e scollatura profonda firmato ovviamente Vera Wang Haute. A 75 anni, Wang dimostra che il corpo non è più il centro del messaggio: è la presenza, la trasformazione, l’autorialità. Non ha solo vestito star come Janelle Monáe e Ariana Grande. È diventata lei stessa protagonista, senza nemmeno togliersi gli occhiali.

 

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Rihanna: l’unico colpo di teatro

E poi arriva Rihanna, quasi un’ora dopo la chiusura ufficiale del tappeto rosso. In ritardo come sempre, incinta per la terza volta, da sola. Marc Jacobs le firma un abito voluminoso che è più silhouette che vestito, mentre Cartier incornicia il volto con gioielli d’archivio. Il vero statement però non è estetico: è l’annuncio. Riri usa il Met per dire che sta per avere un altro figlio. Politica del corpo, storytelling pop, branding e intimità. Il suo look passa in secondo piano. Ed è esattamente così che doveva andare.

I grandi no, gli imbarazzi, i fuori tema

Ogni edizione del Met Gala è anche un campo minato. Il tema di quest’anno, importante e carico di implicazioni politiche, ha funzionato come cartina di tornasole. Ha mostrato chi ha capito e chi ha semplicemente “indossato”.

Dua Lipa in Chanel è l’ennesimo esempio di talento sprecato su look inoffensivi: paillettes, sì, ma nulla da dire. Kylie Jenner in Ferragamo gioca a metà: corsetto e spigato, ma manca un pensiero. Peggio fa Anne Hathaway in Carolina Herrera, con una camicia maschile che cerca di essere citazione, ma resta cliché. Shakira in Prabal Gurung sembra uscita da un altro evento: o è geniale o è fuori strada. Ma è più probabile la seconda.

Gigi Hadid, una delle muse dell’evento, delude con un abito Miu Miu troppo facile, troppo d’epoca, troppo dimenticabile. Lana Del Rey in Valentino è un quadro perfetto, ma scollegato dal discorso. Il suo look drammatico, poetico e cupo è l’unico che avrebbe brillato… al Met Gala 2018.

Met Gala 2025: i momenti da ricordare

Nonostante l’omologazione generale, ci sono stati picchi di verità visiva.

Diana Ross, leggenda vivente, ha calcato la scalinata con un abito couture firmato Ugo Mozie e Evan Ross, suo figlio. Tutto perline, strascichi e nomi ricamati sul capo piumato: i suoi figli, i suoi nipoti. Icona e genealogia, Black Excellence e memoria affettiva.

Teyana Taylor ha incarnato il tema come pochi. In Marc Jacobs x Ruth E. Carter, è il sogno sartoriale diventato realtà. Redingote, soprabito plissettato, scarpe platform, cappello: tutto racconta una storia. Quella di una donna che gioca con il maschile senza mai doverlo giustificare.

Hunter Schafer in Prada riesce dove altri falliscono: fa del baschetto il suo trono. Non cerca la provocazione. La è. E poi Doja Cat, sempre su Marte, ma almeno coerente con se stessa: abito Marc Jacobs, linea tra performativo e teatrale, ma in fondo, è il suo codice.

Se le passate edizioni del Met Gala sono state titoli clickbait – uova, hamburger, abiti-lampadario – quest’anno il red carpet ha preferito una narrazione meno fotogenica ma più consapevole. Il rischio? Passare per noioso. Il vantaggio? Aver finalmente legato l’abito al suo contesto.

Le scelte di Anna Wintour e dei curatori hanno chiaramente puntato su una lettura politica: non solo moda come estetica, ma moda come memoria, come strumento, come affermazione. In un’America ancora spaccata tra inclusione e regressione, portare al centro l’identità black con un codice sartoriale – maschile, storico, sofisticato – è stata una mossa di rara intelligenza culturale.

Il Met Gala 2025 ha dimostrato che lo stupore fine a sé stesso ha fatto il suo tempo. Oggi la moda chiede contenuto, complessità, contesto. I look che resteranno nella memoria non sono i più vistosi, ma i più stratificati. Quelli che raccontano qualcosa a chi sa ascoltare. Quelli che, a guardarli, non basta un selfie.

Non è stato un Gala per tutti. Non è stato nemmeno il più spettacolare. Ma è stato, forse, il più necessario degli ultimi dieci anni. E questo, in tempi di distrazione estetica, è già moltissimo.

Daniele Conforti