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Chiara Ferragni: anatomia di un nuovo Inizio

Chiara Ferragni non sta semplicemente cercando un rilancio. Sta tentando una rifondazione identitaria. Quando ha pubblicato su Instagram – davanti a 28,5 milioni di follower – il messaggio in cui annunciava di aver acquisito il 99,8% della propria azienda, Fenice Srl, non ha parlato di empowerment o di visione, ma di realtà. Cruda, imperfetta, autentica. È in questa tonalità – un registro insolito per un’imprenditrice che ha fatto del branding iper-controllato una religione – che si gioca l’ultimo, e forse più importante, capitolo della narrativa-Ferragni.

Fenice Srl è il cuore commerciale del marchio Chiara Ferragni, la cassaforte in cui confluisce tutto ciò che il nome produce: abbigliamento, accessori, beauty, cartoleria, retail e licenze. Acquisire il controllo quasi totale della società non è solo una mossa tecnica, ma un gesto che ha la carica simbolica di una presa di potere post-crisi. Dopo mesi di silenzi, cadute, attacchi, indagini e un divorzio spettacolarizzato fino allo sfinimento, Ferragni ha deciso di restare sola al comando.

 

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Ma è una solitudine conquistata con un prezzo elevatissimo. Per arrivare al 99,8% del capitale sociale, Ferragni ha dovuto versare 6,4 milioni di euro di tasca propria per ricapitalizzare la società. I suoi soci precedenti, Paolo Barletta (ex Alchimia Investments) e Pasquale Morgese (CEO di Mofra Shoes), si sono sfilati. Il primo ha perso interamente il suo investimento da 1,4 milioni; il secondo ha tenuto lo 0,2% solo per conservare una porta aperta su possibili azioni legali future. Non si tratta di una promozione, ma di una sopravvivenza in piena ritirata.

Dall’impero al cratere: quando il brand diventa instabile

Fenice Srl, nel 2022, era una macchina da guerra. Con un fatturato di 14,2 milioni di euro e un EBITDA al 35%, stava scrivendo uno dei pochi case study italiani di successo fashion-digitale costruito su una persona. Nel 2023, però, la traiettoria si è inclinata. E non per semplici cicli di mercato.

Dicembre 2023 ha segnato l’inizio di una caduta verticale: lo scandalo del “pandoro-gate” ha scoperchiato le fragilità strutturali di un sistema troppo fondato sull’immagine, troppo dipendente dalla percezione pubblica. L’Antitrust italiana ha inflitto una multa per pubblicità ingannevole legata a una campagna benefica che, nei fatti, si è rivelata tutt’altro che trasparente. Il danno reputazionale è stato immediato. Il danno economico, devastante.

I dati preliminari al 30 novembre 2024 parlano chiaro: solo 2 milioni di euro di ricavi, un quinto rispetto all’anno precedente. Fenice è entrata in zona rossa, tecnicamente prossima al collasso. La crisi non ha solo colpito la vendita dei prodotti ma anche il core invisibile del business Ferragni: le collaborazioni commerciali. I brand hanno iniziato a scomparire dai feed. Gli sponsor, a ritirarsi. I clienti, a dubitare.

E in un modello basato integralmente sull’interconnessione tra immagine pubblica e valore commerciale, questa è la catastrofe perfetta.

Il ritorno al controllo: strategia o ultima spiaggia?

Con il passo di acquisizione, Chiara Ferragni si è assunta un doppio rischio. Da una parte ha centralizzato il potere, da imprenditrice a pieno titolo. Dall’altra, ha rinunciato a qualsiasi rete di salvataggio. Oggi, lei è il brand, l’unica garante del capitale, l’unica voce del comando.

L’operazione ha il sapore di un “reset”, ma non nella forma idilliaca di una startup che ricomincia. Questo è un reset in pieno campo di macerie. La governance è stata affidata a Claudio Calabi, manager specializzato nella ristrutturazione di aziende in crisi, noto per la gestione dei momenti di emergenza. Calabi ha già tagliato personale e costi operativi, ma la situazione rimane precaria. Il grosso della liquidità versata da Ferragni è servito a coprire falle, non a finanziare nuovi progetti.

Eppure, è proprio in questo scenario che Ferragni sembra voler rinegoziare non solo il ruolo all’interno del brand, ma l’intero paradigma della sua presenza pubblica. Per la prima volta, dice: «Non vi racconterò una favola». Per la prima volta, ammette che il brand “Chiara Ferragni” non è immune ai crolli. E quindi si espone, si espone moltissimo, nella speranza che il racconto della caduta riesca a sostituire il racconto dell’ascesa.

Reputation economy: il capitalismo dell’immagine

Il caso Ferragni è una case history da manuale nella cosiddetta reputation economy. La monetizzazione dell’influenza ha avuto il suo apice proprio nella capacità di trasformare il sé in valore liquido. Ferragni ha venduto non solo prodotti, ma un lifestyle visivo, un’ideologia aspirazionale. Ma quando il collante di quella narrazione – la credibilità – si incrina, tutto il sistema collassa come un castello costruito sul branding.

L’errore strategico, se vogliamo, non è stato solo nella gestione opaca di una campagna benefica, ma nella mancanza di trasparenza strutturale. Troppo marketing, poca accountability. Troppi filtri, pochi fatti. E in una stagione storica dove i consumatori chiedono autenticità radicale e coerenza etica, le scorciatoie costano care.

Ferragni oggi prova a raccontare la vulnerabilità come asset, a trasformare la caduta in valore comunicativo. Ma la sfida è colossale: convincere il pubblico che c’è una nuova Chiara, imprenditrice consapevole, stratega solitaria, padrona del proprio fallimento e della propria rinascita. Ma per ora non è un nuovo inizio: è un tentativo di sopravvivenza.

Il sistema Ferragni: ancora solido o già obsoleto?

Fenice Srl è solo una parte del complesso ecosistema societario costruito attorno alla figura di Ferragni. C’è TBS Crew, la società che gestisce la sua immagine e quella della sua famiglia, nata come editore di The Blonde Salad e oggi trasformata in agenzia di talent. È la parte mediatica, quella che ha curato collaborazioni con Dior, Lancôme, Pantene, Vuitton. Il bilancio non è ancora disponibile, ma è evidente che anche questo settore sia stato colpito dalla contrazione del brand.

Poi c’è Ferragni Enterprise, che gestisce il patrimonio immobiliare, tra cui il lussuoso appartamento a CityLife, valutato intorno ai 10 milioni di euro. Ma questa è una cassaforte separata, meno esposta. Il cuore dell’impero resta Fenice. E lì, oggi, non ci sono più paracadute.

Il controllo del 99,8% suona come un traguardo, ma anche come un punto di non ritorno. Ferragni non ha più alleati strategici. Nessun fondo. Nessun co-investitore. Solo sé stessa. In un mercato spietato e in rapida mutazione, questa è una condizione tanto eroica quanto precaria.

 

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Lezione Ferragni: quando il brand-persona diventa brand-fallimento

La storia di Chiara Ferragni è anche una lezione per l’intera industria. Troppo spesso, i brand-persona vengono trattati come prodotti eterni, immuni dalla crisi. Ma quando la narrazione collassa, il prodotto non è più desiderabile. E Ferragni ha dimostrato che basta un errore, amplificato da una cattiva gestione del danno, per azzerare un decennio di costruzione valoriale.

Il suo tentativo di riappropriarsi della regia è interessante, anche strategico. Ma il vero interrogativo è: il pubblico è disposto a perdonare? E soprattutto: esiste ancora un mercato per il tipo di lifestyle che il brand Chiara Ferragni rappresenta? O la sua estetica – rosa, glitterata, pop-aspirazionale – è ormai fuori tempo massimo, cannibalizzata da nuovi riferimenti culturali e da una sensibilità post-pandemia ben più selettiva e diffidente?

Chiara Ferragni oggi non ha bisogno di un rebranding. Ha bisogno di una metamorfosi radicale. Di dire qualcosa che non ha mai detto. Di mostrarsi in un modo che non ha mai osato. E soprattutto, ha bisogno di dimostrare – non più raccontare – di saper costruire valore anche senza like, filtri, collezioni capsule e photo opportunity da passerella.

Per la prima volta, Chiara Ferragni si trova davanti alla sola audience che conta davvero: sé stessa. E non ci sono più scuse, né favole. Solo realtà.

Daniele Conforti