Moda Inclusiva
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Moda Inclusiva

Dov’è finita la moda inclusiva?

La moda è esausta. Satura di abiti, designer, brand, collaborazioni, sfilate. Di scandali, di discussioni, di parole. E per sopravvivere a questa orda di fashion show, ho scelto di fermarmi a riflettere. Guardarmi alle spalle per cercare di capire qualcosa.

Mentre ricordavo i dolorosi momenti della pandemia, quelli in cui la sofferenza ha accomunato l’intera umanità, mi sono chiesto: ma la moda inclusiva dov’è finita?

La sfilata virale di Coperni

Sembrava un trend – e praticamente lo era – destinato ad appassire per mancanza di genuinità. Eppure, in un momento di distanza fisica, sembrava umanizzare la moda come in un abbraccio collettivo. Del tipo: ti vedo, so che esisti, eccoti rappresentato.

Tuttavia, i cani robot di Boston Dynamics all’ultima sfilata di Coperni mi hanno riportato istantaneamente al presente. E mentre gli ospiti interrogavano il paradigma uomo-robot chiedendosi chi sia la vittima e chi il carnefice, Coperni ha inscenato sulla passerella l’incontro post-apocalittico fra moda e tecnologia. Ecco il robot scrutarsi guardingo con la supermodella Rianne Van Rompaey, prima di toglierle il capospalla. Sembrano piacersi: ma chi è il lupo e chi l’agnello?

In una collezione che trascende il “brutto” e il “bello” – concetti che se applicati a istituzioni figurative come l’arte e la moda esprimono la deriva della capacità critica dell’uomo – questa trovata rimane, comunque, l’elemento più interessante.

Del resto, questa è la tendenza. Dallo stage-diving di Sunnei, alla sfilata in “decomposizione” di Avavav, quest’anno la moda ha raggiunto un nuovo traguardo di viralità tramite espedienti concepiti esclusivamente per essere condivisi sui social fino allo sfinimento.

Moda inclusiva Coperni

La moda inclusiva non è remunerativa?

I marchi rimangono intrappolati nella corsa al prossimo momento virale, è diventato il loro modo di fare marketing.

Parla così per BoF il consulente di comunicazione Youssef Marquis, noto per il suo lavoro presso Louis Vuitton e Givenchy. Perché effettivamente, spiccare per il contenuto è diventato quasi impossibile. Praticamente, i brand di moda superano in numero i suoi buyer e sfornare collezioni di spessore al ritmo imposto dal fashion system è più che altro un’utopia.

C’è stato chi ha cercato di contrastare questo sistema soffocante. Alessandro Michele, te lo ricordi? L’ex-direttore creativo di Gucci che faceva un po’ come gli pareva. Che non seguiva i tempi della moda e che spesso attingeva a riferimenti eclettici degni di riflessione. Un po’ extra, massimalista, ma sincero nel promuovere una moda inclusiva sia in passerella che fuori.

Principi gender fluid, denti imperfetti per promuovere la prima linea di Gucci Beauty, modelle poco convenzionali – sicuramente avrai sentito parlare di Armine Harutyunyan, la modella definita “brutta”.

Un primo passo verso una prospettiva più inclusiva del concetto di moda. Senz’altro, le boutique di Gucci, sia all’ora che oggi, non si sono scomodate per includere nell’esperienza d’acquisto anche gli individui plus-size – i capi dalle taglie asciuttissime non sono stati certamente alterati.

Moda inclusiva Gucci

I marchi di moda, da quelli emergenti a quelli storici, devono pur finanziarsi. E come tutti sappiamo, la scelta di allontanare Alessandro Michele da Gucci è stata mossa prima di tutto da un fattore economico.

Basti pensare che, dopo le recenti dichiarazioni di Pinault sulle perdite registrate in Gran Bretagna, Medio Oriente e Stati Uniti, non solo il gruppo Kering ha deciso di assumere un responsabile della “sicurezza del marchio”, ma la sfilata di Balenciaga alle porte nella capitale francese si preannuncia come un sobrio ritorno alle origini e all’heritage di Cristobal. Addio quindi a concept sovversivi, sacchetti della spazzatura e pupazzi BDSM.

Gli scandali della moda sulla bocca di tutti (ma proprio, tutti)

L’attenzione mediatica alla portata di tutti ha messo ciascuna maison sotto una lente d’ingrandimento spesso scomoda. Amplificando in misure quasi assurde sbagli, inciampi o visioni poco ortodosse.

Tralasciando il caso Balenciaga, estremamente complesso e controverso, questo fashion month ha generato diverse lamentele fra il pubblico dei social. Che, in un sistema ultra-democratizzato sempre più woke ed “esperto”, ha spesso da ridire.

Tu stesso, forse, sarai rimasto toccato dall’haute couture di Schiaparelli, dove finte teste imbalsamate in scala reale erano applicate alle creazioni d’alta moda. Un dibattito lecito quello sul presunto tentativo di “glamourizzare la caccia grossa”, ma fine a se stesso. Perché la moda si tiene ben distante dall’impiego di pelli e peli animali.

Quando, piuttosto, sarebbe opportuno chiedersi se la direzione che i brand stanno prendendo sia ancora effettivamente verso una moda inclusiva. Perché non è soltanto Balenciaga a voler tornare sulla pista tradizionalista: la Milano Fashion Week si è svolta, tristemente, fra taglie zero e variazioni a più non posso su silhouette conservative.

Dove sono finite body positivity e moda inclusiva? Dove sono le modelle plus-size di Fendace? E la disabilità portata sulle passerelle da Moschino? Forse ora che i tagli Y2K sono tornati – le vite basse e i corpi super-skinny –, la moda inclusiva non ha più niente da offrire. Forse ora che i vertici direzionali puntano sulle vendite, la comunità queer si può tralasciare. O, forse, nel clima politico conservatore italiano le case di moda hanno scelto di non osare.

 

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Daniele Conforti