Rick Owens: Brutalmente, Essenzialmente Bello
Se Zendaya e Paris Hilton lo scelgono – due figure un po’ agli antipodi quando si parla di stile – significa che l’obiettivo è stato raggiunto. Qual è l’obiettivo massimo per Rick Owens, ti starai chiedendo. La bellezza. Una bellezza sublime, assolutamente non convenzionale, in cui il concetto di genere non trova posto, risulta quasi invalidante nel processo estetico.
Il codice stilistico di Rick Owens è sagace, suggestivo, estremamente personale, al di là di ogni canone, sia nel design di interni come nella moda. Due ambiti intimi all’essere umano, in grado di lanciare messaggi, rappresentare ideali, essere manifesto di protesta. Una concezione del bello mai così attuale: una protesta, in cui la tecnica si fonde alla creatività per generare un indipendente e fiero modello di provocazione punk.
I vestiti che creo sono la mia autobiografia. Rappresentano la calma elegante a cui aspiro e i danni che ho fatto lungo la strada. Sono espressione di tenerezza e animo furente. Sono un’idealizzazione adolescente e la sua inevitabile sconfitta.
Rick Owens
A fare da culla all’esperienza di Richard Saturnino Owens è Porteville, in California. Qui il giovane talento si dimenava fra le restrizioni soffocanti dei genitori e, mentre il padre si impegnava nel fargli amare i classici letterari e musicali, la madre gli insegnava i rudimenti del cucito. Il primo approccio alla cultura materica dell’estetica si manifesta, invece, nella scuola cattolica locale. Qui, le immagini dei santi e delle loro vesti drappeggiate innestano in Owens un gusto prematuro per i volumi avvolgenti.
Abbandonata la celebre scuola d’arte Otis College of Art and Design, a causa dei costi proibitivi, Owens inizia a frequentare un corso di modellismo a Los Angeles Trade-Technical College.
La passione per il tailoring prende il via nei primi anni Novanta, quando Owens inizia a creare pezzi unici per gli amici. Esplorando gli stock di capi dell’esercito, il designer in erba dà vita alle giacche in pelle dalle lunghissime maniche, T-shirt microscopiche decisamente punk, gonne con tagli diagonali e pantaloni dagli orli irregolari. Dobbiamo aspettare il 1994 per la prima linea di Rick Owens, lanciata nella boutique di Charles Galley, promotore in precedenza anche di Azzedine Alaïa e Martin Margiela.
Una fusione di glamour e grunge per cui rock star del calibro di Madonna e Courtney Love impazzivano. La produzione del marchio viene spostata in Italia e, nel 2002, Rick Owens debutta alla New York Fashion Week: qui l’essenzialità brutale si marezzava dei suoni crudi di Alice Cooper e Iggy Pop. Un successo che gli fece vincere il Perry Ellis Award come miglior talento emergente secondo il CFDA. Questo istante segnerà anche la genesi della collaborazione ventennale con Panos Yiapanis, una firma costante dei suoi fashion show. Persino Anna Wintour si accorse del talento che stava nascendo – in realtà già dopo aver visto Kate Moss con addosso una giacca in pelle firmata Rick Owens su Vogue Paris.
Da qui in poi, impareremo a essere folgorati dalla tensione generata dall’attesa, che esplodeva in picchi di provocazione illecita, installazioni fra fondali infuocati e cascate, modelle a testa in giù sulla schiena di altri modelli e quaranta danzatrici zulu affiancati da atleti di step dance. Questi individui danzanti avevano bisogno di muoversi grintosamente, così Owens studiò di conseguenza l’abbigliamento con cuciture, allacciature, spacchi, cerniere, per permettere a loro il massimo del movimento.
Ad affermare l’estro del designer fu la linea maschile, che nel 2003, a Parigi, trionfò fra i distintivi elementi avvolgenti, i colori neutri, le silhouette reminiscenti di un tempo passato, quasi sgualcito.
Pensate ad Alexander McQueen. Immaginatevi ora di innovarlo, fare dell’allure gotica un brutalismo sartoriale, in cui streetstyle americano si fonde con l’arte tout court primitiva. Un’arte perennemente avvolgente, in cui la celebre motard jacket chiude il corpo come un bozzolo prezioso grazie alla zip asimmetrica. Un’arte colta, in cui le forme si rifacevano alla tradizione giapponese: giochi di drappeggi, asimmetrie, la fiera del destrutturato.
La ciliegina sulla torta è rappresentata dalle Geobasket, le iconiche sneaker dalla forma fra una scarpa da basket e un combat boot, in pieno contrasto rispetto ai modelli in voga nel 2005, l’anno di uscita del modello.
A questo punto, già da dieci anni Michèle Lamy rappresentava per il designer una vera e propria dea, un’ispirazione, coppia fissa con Rick sin dagli esordi. Egli si dichiarava estremamente affascinato dalla sua passione per il deforme, l’estremo, la sua natura nomade, ribelle. La sua “sfinge ipnotizzante”, dalla carnagione scura e dal corpo ricoperto da tatuaggi, una bellezza lontana dall’ortodosso e sensualmente enigmatica.
Una continua ispirazione, una contaminazione che spazia – e continua a spaziare – fra arte, moda e design. Adidas, Veja, Converse, Swampgod, Birkenstock fra i tanti.
In quanto a pietre miliari della carriera del designer, da citare è la sfilata Autunno/Inverno 2015, in cui alcuni modelli del cast indossavano abiti a tunica, senza intimo, lasciando trapelare i genitali maschili. Per Owens, uno fra i gesti più semplici e primordiali, quei gesti semplici «che danno una botta».
Non pensiate che la sua rilevanza sia castigata al passato: Rick Owens presenta la collezione Fall/Winter 2021 al tempio votivo di Venezia, muovendo un caso mediatico per aver presentato modelli in underwear in circostanze religiose.
Rick Owens e Michèle Lamy
Rick Owens Fall/Winter 2015
Rick Owens Fall/Winter 2021
Daniele Conforti