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Cucinelli e Loro Piana: Che Fine Hanno Fatto?

Vi siete mai chiesti che fine abbia fatto Brunello Cucinelli? Loro Piana? Kiton? Stefano Ricci? Non parliamo di nicchie, non parliamo di brand emergenti, eppure sono in pochi coloro che hanno ben presente il posizionamento attuale di questi marchi. Parliamo invece di brand profondamente ancorati alle proprie origini: eccellenza sartoriale, savoir-faire artigianale, approccio etico incontaminato. Una tradizione che non riguarda soltanto il prodotto, ma che si riversa negli approcci comunicativi e nelle strategie di marketing “moderni” – aggressivi, estremamente legati all’immagine, che sguazzano nella logomania.

Quelli che non vogliono fare moda, ma vorrebbero fare gli artigiani dell’umanità, sono brand dalla natura spesso enigmatica, che appartengono a un lusso tanto estremo quanto discreto, derivante da una tradizione come quella italiana in cui ostentare la propria ricchezza con abiti eccessivamente opulenti era, anzi, indice di morale corrotta al limite della volgarità. Un codice stilistico castigato che ben si confà alla filosofia di Brunello Cucinelli, famoso in tutto il mondo per i suoi pullover di cachemire. Nel 1978, Cucinelli fonda una piccola impresa e stupisce il mercato con l’idea di colorare questo tessuto pregiato: nasce da qui un marchio che lavorerà sempre nel rispetto della dignità morale ed economica dell’uomo. Sono anonimità a neutralità a rendere il marchio particolarmente apprezzato da Mark Zuckerberg, Jeff Besos e una buona porzione dei potenti della Silicon Valley. Secondo un primo bilancio, i suoi ricavi sono cresciuti di 313,8 milioni di euro solo nel primo trimestre, le vendite sono aumentate di più del 32% nei primi nove mesi e oggi l’azienda conta oltre duemila dipendenti.

Sarà soltanto il ritorno del luxury normcore e il fascino per i pezzi d’archivio a favorire l’appeal internazionale di tutti quei marchi che, come Cucinelli, continuano a prosperare all’ombra? È l’aspirazionalità a fare la differenza per i marchi italiani della sealth wealth. Per sua definizione, un brand aspirazionale è un marchio che tutti vorrebbero comprare, senza avere le possibilità economiche. Il focus è sul taglio e sui materiali, senza dare rilevanza ai loghi, che scompaiono, così come i product placement, le fashion week, i Met Gala. Perché? Quelli che alla massa appaiono giganti addormentati, si trovano già in cima alla catena alimentare.

Una piramide in cui i marchi a conduzione familiare primeggiano, proprio in quanto estremamente indipendenti nel proprio agire. Fa eccezione Loro Piana, di proprietà LVMH per l’85%. Non è esattamente un big player come Dior, Fendi o Louis Vuitton, rimane in panchina come Patou, Emilio Pucci e Monyat. Loro Piana, internazionalmente riconosciuto per il pregio delle materie prime impiegate e nel prodotto finito di eccezionale qualità, resta intenzionalmente lontano dal voluminoso vociferare della moda mainstream. Recentemente, dal rapporto con fornitori esclusivi per la fibra di vicuña, il marchio ha osato con diverse collaborazioni: da Matthew Williams e Stussy, andando a creare una capsule di workwear, fino alla collab con Hiroshi Fujiwara, titano dello streetwear giapponese.

Un’espansione continua, che contribuisce al costante consolidamento del marchio, che, anche se apparentemente invisibile, gioca un ruolo importante all’interno di uno stile di vita ben preciso – quello delle gare di equitazione e delle regate fra super yatch.

È banale dire che le cose fatte bene non stancano mai? Che non si rompono? Quality over quantity? Forse sì. Eppure, per questi due marchi, e tanti loro simili, l’heritage, la concreta qualità artigianale, la maturità di uno stile di lusso che non passa mai di moda incrementa d’appeal nei confronti sia dei grandi conglomerati del lusso, che di Millenial e GenZ. Giganti silenziosi, celati nelle retrovie della moda, passato e futuro nei libri di storia.

Daniele Conforti